
L’esposizione è la prima di un ciclo di tre mostre — “Quando filo, colore, parola s’intrecciano” — a cura di Giovanna Dalla Chiesa, che mette a confronto il lavoro di tre artiste: Alice Schivardi, Luciana Pretta e Luisa Lanarca.
In mostra una selezione di opere che riflettono il linguaggio distintivo di Alice Schivardi, il suo interesse per la narrazione intima e la costruzione di legami attraverso il disegno e il ricamo.
Il percorso espositivo include Coccinelle (2010-2015), un’installazione composta da 32 ovali ricamati su carta da lucido, incorniciati in resina, che insieme formano un mosaico di memorie ed emozioni nascoste. Dalla serie Amore incondizionato e Black Series, due opere ricamate su carta da lucido, in cui il filo diventa uno strumento per sondare le profondità dell’affettività e delle relazioni umane. In Eco di Luce, un’ape si posa su una bocca, caricando di valenze simboliche e antropologiche la tensione tra silenzio e necessità di parola. Infine, un gruppo di api in volo (disegni a ricamo su carta da lucido, matita, filo di cotone, cornice in metallo): ognuna disegna la propria traiettoria e, nell’attesa di ricevere il nome da chi ne entrerà in possesso, suggerisce un’ulteriore riflessione sul possibile legame tra le due specie, quella umana e quella del regno animale.
Osserva Giovanna Dalla Chiesa: “Con il filo dei suoi ‘disegni a ricamo’, su carta trasparente, Alice Schivardi non ha soltanto raccontato storie che portano in primo piano l’intimità e l’assorta concentrazione del mondo femminile, ma ha gettato un ponte tra gli aspetti della rappresentazione artistica che tradizionalmente si astrae dalla realtà e quelli della vita. Di questa fanno parte, non solo figure eticamente o spiritualmente esemplari come il partigiano Mario Fiorentini o Santa Rita da Cascia – protagonisti di alcune spettacolari performance -, ma l’intero creato, fatto di insetti meravigliosi e sociali come le api, o di altri – cui si deve comunque rispetto, sino a dar loro sepoltura – del regno animale di cani e uccelli, con cui l’artista riesce a fondersi sino a una completa immedesimazione e di quello di tutte le differenze etniche, di genere o genetiche, come nel caso del suo recente lavoro con i non vedenti. Il filo di Alice Schivardi è quindi il filo del pensiero che in modo immateriale, ma persistente, raccontando storie severe o soavi, su superfici trasparenti che lo fanno librare nell’aria, attraversa i confini per porsi ogni volta in relazione, e trasformare all’occorrenza la storia, riunificando ciò che il pregiudizio umano ha separato. Questo filo sapiente, e sapienziale, esteticamente incantevole, si rivolge agli aspetti antropologici come a quelli politici, sociali o religiosi, su cui deve fondarsi la consapevolezza della nostra umanità, e da cui dipendono la possibilità e la necessità di un’armonica convivenza e sopravvivenza.”
Selezione opere
Gallery




Testo critico
Le peripezie di Alice
di Giovanna Dalla Chiesa
LA LUCE
Ho ancora negli occhi l’impressione della luce da cui fui investita quando entrai nello studio di Alice Schivardi la prima volta. Niente di quello che ho osservato in seguito è paragonabile all’effetto di quella luce di latte avvolgente, che evocava in me certe mattine di foschia in alta montagna, con la neve, quando il potere di irradiazione della luce è al massimo.
Per caso, di recente, ho ascoltato le parole con cui Alice Schivardi ha definito il proprio bisogno di offrire con la sua opera un apporto riparatore al cinismo di un mondo, privo di speranza e di umanità come quello che ci circonda: “respiro di luce”. E nessuna definizione mi è parsa più appropriata per sintetizzare la sostanza profonda dei suoi intenti.
L’opera di Alice Schivardi, solerte come quella di un’ape industriosa, punge attraverso la carta l’aria con l’ago, ma non solo come fanno le api, per succhiare con la loro proboscide il miele e la sostanza tenera di alcuni momenti della vita, ma anche per difendere con il pungiglione valori, o segnalare l’essenza drammatica del vissuto umano. Per comprendere più a fondo il comportamento delle api l’artista ha anche frequentato dei corsi di apicultura.
Fin dalla sua tesi su Louise Bourgeois all’Accademia di Brera nel 2004 – che conteneva frasi e pareri richiesti ad altri in modo da farne un evento collettivo – Alice ha manifestato una tendenza a condividere le proprie esperienze con amici, parenti e persino estranei, facendo sì che anche l’opinione degli altri intervenisse per allargarne il senso. Quasi subito le è stato assegnato il titolo di artista relazionale. Ma in cosa si esprime la sua relazionalità? L’opera di Alice ha la fragranza dei racconti e delle fiabe popolari e, insieme l’eleganza sofisticata di una forma quintessenziale inafferrabile, e tuttavia concreta e ben presente.
Ciò che avviene tra il disegno leggero che la sua mano deposita sulla carta da lucido e il filo che ne accompagna il segno è lo spostamento di una frazione, sufficiente a far scivolare al margine l’azione, lasciando all’interno una scia di luce. È così che la soglia della nostra percezione si dilata espandendo nell’aria quel gesto come un’eco, un alone che ne accompagna il viaggio.
“Se le soglie della percezione fossero purificate, tutto apparirebbe all’uomo come in effetti è, infinito”, ha scritto William Blake in un brano ultra celebre che apre ad un’estensione spazio-temporale infinita. E di questo si tratta, di superare confini, di dischiudere al nostro ego, imprigionato dentro le proprie mura, orizzonti più vasti, dove lo sguardo possa estendersi per avvertire la straordinaria unità di tutte le cose, dalle più piccole alle più grandi, che ci è lecito solo immaginare, ma è già gran cosa. Quel doppio segno della mano ci apre un universo parallelo. Le immagini dei racconti di Alice sono spesso incorniciate da ovali, un modo di cullarle in un grembo – l’uovo – e non solo di racchiuderle, all’apparenza, in cornici, come miniature dell’Ottocento. Sono figure di un tessuto intrapsichico – come è naturale, perché prima di inoltrarsi bisogna raccogliersi in sé stessi – sospese negli slittamenti della memoria e come immerse nel liquido amniotico di una dimensione prenatale, quella del non essere ancora, dell’attardarsi in quel paradiso che abbiamo conosciuto nel ventre materno o appena fuori, quando ogni gesto è di protezione e di accoglienza nel mondo in cui siamo appena entrati per dirci che l’amore che ci ha generato non ci abbandonerà.
IL FILO
Siamo nel 2008 quando per la prima volta, e come per caso, mentre prepara le opere per la mostra “Welcome Remembering” all’American Academy di Roma, vede in un angolo del proprio studio un ago e del filo e decide di intervenire con quello nei disegni su carta trasparente, capisce come in un flash, che quel filo può metterla in relazione con tutto.
È il primo tuffo nella realtà di quei racconti che formano il sostrato originario del suo lavoro, ma per poterli raccontare è necessario viverli, attraversare mille confini, sfidare paure, errori, incapacità, mettendosi continuamente alla prova. Ogni nuova esperienza modifica profondamente l’autrice e contemporaneamente trasforma, a mano a mano, le condizioni in cui nasce e vive l’opera.
Le occasioni cominciano a moltiplicarsi. Nel 2010 prende l’avvio il ciclo “Coccinelle”, una serie di 32 preziosi, minuscoli ovali, che raccolgono frammenti di vita intima e disegnano storie personali e familiari, capaci di suscitare intense emozioni. Saranno esposti nel 2013 nella mostra “Genius Loci” di Pesaro curata da Ludovico Pratesi e Paola Ugolini e nel 2015 alla Richard Saltoun Gallery di Londra, a cura di Paola Ugolini.
Nel 2012 tiene la sua prima, complessa personale nello spazio romano The Gallery Apart: assegna a sei persone diverse per età, sesso e percorso individuale il compito di raccontare una storia della propria vita che viene incisa su nastro magnetico e trasmessa da sei diversi altoparlanti dislocati nella galleria, mentre su un foglio di acetato di 12 metri – “Ad immagine e somiglianza” – scorre il racconto formato da disegni e ricami, ispirati ai racconti drammatici ascoltati durante l’incontro e affidati all’anonimato. Il titolo, “Equazione Uno”, si riferisce alla modalità di propagazione delle onde che in fisica si esprime attraverso equazioni. Il pubblico è accolto da un caos di voci sovrapposte. Solo avvicinandosi alla fonte sonora, un suono puro sinusoidale per ogni storia, elaborato dal compositore Giacomo Del Colle Lauri Volpi, permette di ascoltare distintamente il racconto individuale. L’intreccio tra collettività e individuo, l’accento posto sull’intimità delle storie hanno come obiettivo quello che ognuno possa riconoscersi nelle storie dell’altro, facendo spazio a un’identità collettiva come patrimonio di ognuno e di tutti.
VIDEO, PERFORMANCE E FOTOGRAFIA
Nel 2014 viene selezionata per una residenza d’artista dall’International Studio & Curatorial Program (ISCP) di New York in collaborazione con il museo preposto alla conservazione delle tradizioni ispanoamericane a Brooklyn (El Museo de Los Sures): crea due opere diverse.
La prima, “Wormholes”, allude alla struttura topologica capace ipoteticamente di collegare punti disparati, dislocati nello spazio e nel tempo compatibilmente con la teoria della relatività generale; coinvolge la popolazione del quartiere sollecitandola a raccontare le proprie storie sentimentali, poi, grazie al sound engineer coreano Kwang Hoon Han e all’ebanista Richard Lee riesce a far costruire un muro al cui interno sono nascosti degli altoparlanti che possono essere ascoltati, ma solo accostandosi alle fonti sonore come a una sorta di grande confessionale.
La seconda opera, “Yellow”, è un video dove sperimenta un’altra novità: una sorta di “cessione di identità”. Affida all’elemento impalpabile dell’aria il suono del proprio nome pronunciato ad alta voce da giovani sconosciuti di diverse nazionalità – divertente e insieme incentivante, la difficoltà di ognuno nello scandirne le lettere – e compie un ulteriore spostamento dal piano materiale della propria partecipazione fisica e individuale, a quello immateriale.
A Roma, in un internet point della Tiburtina, ha fatto intanto amicizia con una famiglia del Bangladesh che lo gestisce e con cui avverte una singolare affinità. Nasce da questo incontro un ciclo, di cui l’autrice valuta subito il potenziale infinito – che infatti si estenderà enormemente – dal titolo “Ero figlia unica – Tutti con me e me con voi”, un paradosso che affronta il tema sempre più attuale dell’identità culturale ed etnica e il superamento del concetto di famiglia tradizionale.
Grazie alla sua capacità di stabilire relazioni umane, ovunque e a dispetto delle tante differenze e diffidenze, riesce a insinuarsi a poco a poco in un nucleo familiare, trasformandosi in un suo membro nel comportamento, nell’abbigliamento e nel trucco, sino a una completa metamorfosi che culmina con la sua accettazione come parte integrante di questo. Il fatto presuppone, allo stesso tempo, un incisivo cambiamento delle regole della famiglia ospitante. La foto finale suggellerà con la propria presenza la verità di un lento percorso di trasformazione, che non è solo esteriore, ma al contrario, soprattutto interiore. Nel 2015, “Ero figlia unica” dà il titolo anche alla mostra curata da Ludovico Pratesi e Paola Ugolini alla Fondazione Pescheria di Pesaro, dove al ciclo già descritto si unisce – nell’ampio Loggiato che una grande vetrata permette di osservare anche dall’esterno – la sequenza di quattordici nuovi, grandi lavori estrapolati dal video “Yellow” di New York. Il numero corrisponde alle lettere del suo nome che ritraggono le bocche spalancate nell’atto di pronunciarne le sillabe. Compare, in quest’occasione, il primo insetto accostato alle labbra: un cervo volante, a cui l’artista attribuisce carattere propiziatorio. Stabilisce in questo anno, anche un bel sodalizio con Matteo Boetti che ne ospiterà la personale di disegni a ricamo “Così sia” nel suo spazio di Todi.
Già con “Ero figlia unica”, Alice Schivardi si era resa conto, che volendo abbordare concretamente la performance non poteva più sottrarsi a un intervento diretto.
Il suo amato cane volpino, Blanco – che aveva dato origine, già ai tempi della sua tesi, al lavoro fotografico “La Madonna del Volpino” – muore nel 2014 e l’artista decide di raccoglierne il pelo per fabbricare un abito che indosserà come una sua seconda pelle, imitandone le pose sino a immedesimarsi completamente nella sua natura, attraverso movenze che danno luogo a diverse foto e ad alcuni bestiari a lui ispirati, dove “Blanco, l’animale inesistente”, produce continue metamorfosi, sino a indossare le ali.
Da quanto abbiamo detto e dal suo temperamento nomade, risulta chiaro l’interesse di Alice per l’ambiente e per l’ecologia (serie “Cimitero per insetti”, 2008-2018), nonché per il volo.
Nel 2019 (maggio) ha l’occasione di incontrare il gruppo di ornitologi che operano sul litorale laziale nell’area del Monumento Naturale di Torre Flavia (Ladispoli). Qui vive una specie in via di estinzione, il fratino. Insieme all’artista di strada Claudio Montuori – specializzato nel riprodurre i suoni emessi dagli uccelli – con il supporto dell’Associazione artQ13 di Roma, dopo un intenso studio del comportamento degli uccelli, Alice dà vita ad una straordinaria performance (“A suon di ali”) – Montuori nella veste di “uomo uccello” – interpretando in tutti i suoi aspetti il corteggiamento del fratino, accompagnata dal suono di strumenti musicali creati per l’occasione, con indosso un abito di piume cucito da lei, in una simbiosi tra mondo animale e umano che tocca l’apice.
Nell’autunno dello stesso anno, nell’ambito del progetto di Giuliana Benassi, dedicato alle trasformazioni storiche dell’area di Campo de’ Fiori a Roma, dopo aver conosciuto l’ex gappista Mario Fiorentini, ultra centenario, decide di riproporne l’azione antifascista, rifacendo, il più fedelmente possibile, il suo percorso su una bicicletta d’epoca, che sarà poi esposta nella Vetrina di via del Consolato 12, partecipe del Progetto “The Indipendent” della Fondazione MAXXI.
Tra le performance e i laboratori di maggior impegno di questi ultimi anni, troviamo “Corvi o Colombe?”, progetto speciale curato da Valentina Ciarallo, durante la Fiera artistica nella Nuvola di Fuksas, una lotta tra il bene e il male interpretata da altri quattro attori oltre all’artista, esteso con straordinario coinvolgimento e successo su tutti e tre i piani della Nuvola, nonché il laboratorio tattile per persone non vedenti “Il filo che ci unisce” in collaborazione con Dispositivi Comunicanti e U.I.C.I. Roma, tenuto ad Alvéus Studio a Roma.
UNLIMITED
Forse un’attenzione alla celebre azione sul “volo” di Yves Klein, forse la scoperta che alla figura di Santa Rita sono collegate le api che secondo la leggenda entravano e uscivano dalla sua bocca senza pungerla, nonché la devozione di Klein per la Santa, hanno ispirato il pellegrinaggio a piedi di Alice Schivardi “Ad-usum/peregrinorum”, sino alla casa di Santa Rita a Roccaporena di Cascia, dove nell’estate del 2020, tiene una residenza su invito di Franco Troiani, per preparare un ciclo di azioni e performance ancora oggi in via di elaborazione e in corso d’opera.
Da questa esperienza e dalla clausura costrittiva del lockdown durante la pandemia, che portava con sé anche un bisogno di rigenerazione, nasce il disegno, apparso in forma editoriale nella serie di copertine che “Vogue Italia” ha dedicato a 49 artisti, di un’ape che si posa sulla bocca di una fanciulla, un’immagine che sottolinea la soglia tra interno ed esterno ed evoca la sospensione tra parola e silenzio. Un emblema potente, enigmatico, un suggello occulto che a mille ipotesi imprime una forma ieratica e per questo inviolabile.
Alla velocità di certe azioni e invenzioni, in tutto il lavoro di Alice Schivardi si contrappone la lentezza della riflessione, della ricerca e dello studio che non hanno limiti, sia come estensione temporale che territoriale.
Già con la luce che sprigiona l’opera di Alice tende a uscire dagli spazi chiusi, ma lo fa anche perché non si ferma mai alla superficie, scava al di sotto, al suo interno, trovando canali di connessione invisibili tra le cose come quelli che ha la vita per mettersi in contatto, relazionarsi e riprodursi, rigenerandosi. È così che per la via più semplice si esprime la natura per superare i confini apparenti, come anche l’ecologia c’insegna e come Alice intrecciando i linguaggi senza mai perdere il filo del discorso, ha imparato a fare.
Edoardo Boncinelli, grande genetista e fisico, qualche anno fa spiegava che il DNA di un moscerino è molto più simile a quello di un uomo di quanto si potrebbe credere.
Alice è attenta alla propria vita intima quanto lo è a quella di tutti gli aspetti visibili ed invisibili che ci circondano. Sua nonna le aveva lasciato un messaggio che da allora non l’ha più abbandonata “nel mio ricordo il filo ci unisce”, e il filo di Alice è verosimilmente il filo del pensiero, un logos, che in modo immateriale s’infiltra ovunque per connettere realtà anche molto distanti apparentemente, ma che hanno comportamenti simili.
Questo filo sapiente, e sapienziale, esteticamente incantevole, si rivolge agli aspetti antropologici come a quelli politici, sociali o religiosi, su cui deve fondarsi la consapevolezza della nostra umanità, e da cui dipendono la possibilità e la necessità di un’armonica convivenza e sopravvivenza.
D’altronde antiche fonti tramandano che le api si siano posate sulle labbra di Pindaro, di Platone e di Sofocle per trasmettere loro il dono della parola e della persuasione.
Il lavoro dell’artista, del poeta e del filosofo è come quello delle api, che dalla bellezza superficiale e peritura del fiore riesce a estrarre un nettare capace di agire ben più in profondità con il perenne nutrimento del pensiero e della cultura: un Opus Magnum a cui ognuno dovrebbe tendere.