
L’esposizione è la terza e ultima di un ciclo di tre mostre — “Quando filo, colore, parola s’intrecciano” — a cura di Giovanna Dalla Chiesa, che mette a confronto il lavoro di tre artiste: Alice Schivardi, Luciana Pretta e Luisa Lanarca.
In mostra una selezione di arazzi eseguiti da Luisa Lanarca dal 1980 a oggi con la tecnica della tessitura a due licci, arricchiti, nel corso del processo tessile, da tecniche miste.
Frutto di un percorso creativo che intreccia l’esperienza diretta della materia con un approfondimento teorico basato sugli studi di Percezione Visiva e di Gestalt, questi lavori rivelano una ricerca stratificata e profonda. In alcune opere, ispirate alle poesie di Emily Dickinson, filo, colore e luce si fondono con la parola poetica, che affiora nella trama tessile trasformandola in un’invocazione con richiami alle insegne e alle affiches di fine Ottocento.
Come osserva Giovanna Dalla Chiesa: “Tessere appartiene alla capacità più articolata del pensiero dell’uomo, al suo destino che non è di separazione, ma di integrazione fra le parti che la natura ha previsto doppie per lui – braccia, gambe, occhi, narici, orecchie e soprattutto i due emisferi cerebrali – per stabilire quella relazione da cui dovrà scaturire una nuova creatura, un’opera che a mano a mano disegnerà anche il suo destino.
Luisa Lanarca non è di quelli che arrivano oggi alla tessitura, ma al contrario che dalla tessitura è partita subito e con maestri importanti, come Laura Marcucci Cambellotti e il suo Laboratorio Tessile. Ciò che rende piuttosto eccezionale il suo percorso è l’uso speculativo sul piano psicologico che ne ha fatto, grazie agli approfondimenti di Percezione Visiva e di Gestalt, appresi alla Scuola di Luigi Veronesi a Milano.
Diversamente da altri, la tessitura ha permesso a Luisa Lanarca, nel suo specifico percorso, quella conoscenza del sé che coincide con la messa a fuoco della propria identità e, nello stesso tempo, un approdo al linguaggio che trova nella poesia, la sua liberazione, emozione e pienezza. L’intreccio fra ragione e sentimento, fra eros e psiche, non può trovare il proprio esito, secondo l’artista, che in una sintesi di quella laboriosità che assomiglia a una silenziosa preghiera, con una luce che attraversa ogni confine, come la parola poetica, e in particolare, come quella di Emily Dickinson, capace di dar voce al suo silenzio.”
Selezione opere
Gallery

Testo critico
La tessitura in modalità psicologica e poetica
di Giovanna Dalla Chiesa
Fila, fila ortolanela,
fin che gira la molinela,
fila, fila ortolanela,
fin che ‘l fuso l’è terminà
(antica canzone della Val Lagarina)
Tessere, un’attività che risale addirittura al periodo neolitico per l’impossibilità dell’umanità di rinunciare a coprirsi, conosce da oltre un decennio, una nuova straordinaria attenzione da parte del mondo artistico, per l’uso che ne stanno facendo molte artiste che con la tecnica specifica della tessitura hanno, peraltro, ben poco a che fare, visto che il tentativo di impossessarsi di questa forma di espressione, è oggi particolarmente in voga.
Chi conosce davvero l’argomento dai suoi fondamenti rischia persino di essere considerato antiquato, o non aggiornato sulle possibilità e le invenzioni con cui questo metodo antico, viene oggi praticato, e ri-inventato fuori dai canoni abituali.
Luisa Lanarca mi è sembrata in questo senso una grande eccezione.
Per quanto vincolata da una tradizione ben determinata, e per quanto la sua formazione risalga già agli anni settanta, il suo approccio alla tessitura non ha nulla a che fare con gli aspetti artigianali caratteristici del mezzo, per quanto di questi abbia una conoscenza approfondita. L’uso moderato del colore, prevalentemente monocromo, l’assenza di un forte accento materico nelle sue composizioni, l’abitudine di racchiudere i lavori dentro contenitori di plexiglas che conferiscono loro un aspetto prezioso contribuisce – anziché metterne in mostra la fattura – a un carattere eminentemente concettuale delle sue opere, conferendo loro una freschezza dovuta all’approccio innovativo.
Non definirei, dunque, i lavori di Luisa attraverso il riferimento alla loro tecnica – come arazzi, ad esempio – per quanto la modalità di fattura abbia la sua importanza, ma tout court come opere, perché è molto evidente che l’artista, con il suo sguardo, va oltre la tecnica. “Vorrei che le mie opere offrissero materia di riflessione e risvegliassero dei sentimenti nelle persone che le contemplano”, ha infatti spiegato.
Gli studi
Dopo la pratica di Laboratorio Tessile svolto a Roma sotto la guida esemplare di Laura Marcucci Cambellotti, Luisa si trasferì a Milano alla scuola di Luigi Veronesi, un campione di versatilità, noto sia per una pittura rigorosamente astratta – di cui è stato antesignano e teorico – che per le sue esperienze nella fotografia, nella regia e scenografia, oltreché maestro nella teoria dei colori che sognava di far collimare con il suono. Una grande apertura, quindi, a cavallo di generi diversi e delle loro possibili relazioni nel campo tecnico. Vicino a lui lavorava anche un esperto di Gestalt, che doveva darle le prime fondamentali nozioni di Psicologia della visione. Un quadro tale, da fornire, insomma, quegli spunti utilissimi ad allargare le proprie conoscenze, spingendola molto in profondità nell’ascolto del proprio Sé. “Nel mio lavoro non ho mai creduto nei dogmi tradizionali” – ha dichiarato l’artista – “e ho sempre pensato che la creatività, le intenzioni specifiche e anche le tecniche siano proprio il frutto di un allenamento visivo e di ricerca che si forma lentamente nel tentativo di capire tutto ciò che ci circonda. Osservando la natura ad esempio è possibile studiare l’intreccio di alcune tessiture eccezionali come i nidi degli uccelli, le ali delle farfalle, l’intreccio dei rami, la rete dei vasi portatori di linfa nelle foglie o nei petali dei fiori. Certo come in ogni lavoro è indispensabile una base tecnica, ma indubbiamente è poi la forza dell’immaginazione che suggerisce come giocare con i fili, con i colori e con i diversi materiali.”
Per anni, in seguito, Luisa Lanarca si è dedicata a un intenso impegno didattico nella convinzione che gli aspetti educativi e pedagogici della tessitura, una volta portata nelle scuole, potessero riservare grandi vantaggi per la formazione di nuove coscienze e lo ha fatto collaborando in particolare con i comuni e le regioni dell’Emilia e della Toscana. La tessitura le ha permesso una conoscenza di sé che coincide con la sua identità. La lentezza del mezzo è stata di stimolo a grandi riflessioni e, insieme alla lettura, ha accompagnato le sue giornate, colmando i vuoti di una solitudine, cercata, ma anche sofferta. Per questo, nonostante altre esperienze, come la fotografia, alcuni cicli di acquerelli surrealisti e il disegno in cui eccelle, è sempre tornata a questa attività, prediletta sopra ogni altra, che la rappresenta pienamente.
L’opera
L’opera più antica in questa mostra è il trittico di piccolo formato del 1982, Conscio – Preconscio – Inconscio, dove i suoi studi sulla percezione trovano un’applicazione elegante: il conscio è espresso da una composizione quadripartita e ordinata di linee in una scansione grafica molto efficace, ma elementare, il preconscio ha percorsi più intrecciati, elettrici e aperti e l’inconscio ha un’impronta molto particolare che inusitatamente sembra già prevedere le strutture interne di un computer, ancora di là da venire.
Più complesso e di dimensioni superiori, tali da permettere una proficua immersione nella visione, è il trittico Autismo – Estroversione – Nevrosi del 1985.
Qui il dinamismo del segno comincia a sopravanzare la composizione: in Autismo essa è rinchiusa in sé stessa, in Estroversione si espande al centro disegnando un quadrato trasparente di bella efficacia, che ha il compito di trasmettere alle sponde periferiche ghirigori pieni di energia, propensi a un’evoluzione di carattere floreale, in Nevrosi presenta uno scarno tracciato di linee, senza chiaro orientamento, incapace di trovare la propria ragion d’essere. I segni, nel loro insieme, sono già vivi e sensibili come dei filamenti nervosi.
Il corpo della luce-colore
Nel 1987, con il trittico Voyeur abbiamo un salto decisivo. Ognuna delle opere, dove un segno perimetra l’intera trama dello sfondo, in modo da abbracciare la propria area d’azione, si apre al centro. Questo vuoto è capace di trasmettere una forte energia, proiettandosi nei movimenti e nella raffigurazione di tutte le linee dell’ordito: è come un vedere attraverso la trama per percepire “fra i rami del bosco”, la radura di luce a cui Heidegger – e da lui Maria Zambrano – ha dato il nome di Lichtung. Un puro linguaggio di segni, linee e colore da guardare nel silenzio di una contemplazione densa e ricca di luminosa tensione interiore, ma priva di parole.
Ciò che viene privilegiato innanzitutto è il disegno, l’idea rispetto alla struttura del tessuto, un’idea che pare esalare dal corpo come farebbe una lieve voluta di fumo. Il segno in osmosi respira la vita, perché è stato liberato dalle catene di un orientamento predeterminato e reso mobile e disponibile alle fluttuazioni del campo energetico che l’artista ha individuato. Si tratta di catalizzare delle energie psichiche, di farne avvertire il potenziale che a ognuno parlerà poi in un modo diverso, secondo la propria sensibilità.
Un senso di pace, di riposo coglie lo spettatore che si pone davanti a una di queste superfici blu, che spesso l’artista ha previsto in sequenze di tre – tesi antitesi e sintesi, ovvero come trittici – e se invece di sostare, decidiamo di attraversare lo spazio, è come una navigazione leggera, dove si può scivolare senza incontrare ostacoli, perché questo blu ha un corpo che accoglie e assorbe come l’acqua; non ha la trasparenza diafana del cielo, la sua tonalità indefinibile, come quella di certi laghi di montagna, è perlacea, con una componente di grigio, dove si mescola a ciocche il filo di nylon. Anche le custodie di plexiglas riflettendo le nostre figure, le tiene sospese nella fluidità.
Secondo Plotino il corpo deve mantenere un allineamento con l’anima e vigilare a non divaricarli. Di fatto se il corpo ha moti rettilinei, l’anima – che è meglio abituarsi a chiamare con il corrispettivo greco psyché, perché di questo si tratta – si sforza di andare sempre verso di sé, con un moto circolare della coscienza, della riflessione e della vita, che ritorna su sé stesso. I continui aggiustamenti necessari a questo scopo sono molto simili alle correzioni di rotta di un marinaio durante la navigazione, ma anche la tessitura è uno dei modi più articolati e complessi sperimentati dall’uomo per integrare le parti che la natura, in lui ha previsto divise: due braccia, due gambe, due occhi, due orecchie, due narici e persino due emisferi cerebrali, ma non per mantenerli separati, al contrario per stabilire relazioni da cui far scaturire una nuova creazione, un’opera che a mano a mano disegni anche il suo destino.
Luisa lo sa molto bene.
La parola
Ignoro, come sia avvenuto e quando, l’incontro tra i versi di Emily Dickinson e i sentimenti di Luisa Lanarca.
La frequentazione delle scrittrici Perla Cacciaguerra, Mimma Pisani, Adele Cambrìa, Elena Gianini Belotti può averlo preparato.
La parola si era già affacciata alla mente di Luisa, che tuttavia aveva preferito non pronunciarla, ma lasciarla inconscia in un fitto groviglio di segni, come simulando un borbottio, o un rumore nel dialogo capovolto di buffi personaggi: due caffettiere napoletane.
Certo è che l’effetto avuto su un temperamento abituato a sottacere le proprie emozioni e a dissimulare i propri sentimenti è stato scatenante. Lo esprimono meglio di ogni altra cosa, i versi che l’artista con un lavoro di molti mesi ha scelto di tracciare per intero in due suoi lavori capitali eseguiti tre il 2024 e il 2025.
Lo spazio cominciò a rintoccare come se tutti i cieli fossero una campana. La mente parve traboccare.
Non si potrebbe essere più espliciti: è una sorta di rivelazione che esprime tutto il turbamento che questa comporta.
Portami il tramonto in una tazza: un’invocazione che nasce dalle fibre più interne dell’essere.
Dove l’ordine del nostro linguaggio razionale s’interrompe ecco che ogni opposizione cessa e che la parola ritrova il proprio senso vitale, la propria liberazione e pienezza.
Luisa Lanarca ha scelto che il filo, qui, non sia più “il filo del discorso” – il logos – ma quel ricongiungimento dell’essere che abbraccia anche l’irrazionale in un sussulto che fa tutt’uno con il proprio desiderio di vivere e di dischiudersi alla grazia della natura e del cosmo. Qui si ha la sintesi fra quella laboriosità – la tessitura – che è simile alla silenziosa preghiera da cui l’universo è tenuto insieme e la luce di quell’amore che è capace di attraversare ogni confine. E la parola poetica di Emily Dickinson, nella cui vita appartata quella di Luisa Lanarca si rispecchia, sembra capace di far giustizia di ogni suo silenzio.