30 Settembre — 13 Novembre 2021
contributi critici di Umberto Palestini, Gloria Fossi e Roberto Valenti

Invitata da Daina Maja Titonel a chiudere un ciclo espositivo di due anni dedicato alle artiste, Ria Lussi esprime – con leggerezza e ironia, ma non senza provocatoria virulenza – il suo punto di vista sullo “spinoso” tema della parità di genere nel mondo dell’arte contemporanea, esponendo diciassette ironici autoritratti ad acrilico – in formato “tondo” – dove gli aggettivi attribuiti di volta in volta alla diversa “Rosa”, suggeriscono una chiave di lettura delle candide e metamorfiche figure che emergono da una ricercata variazione sul colore.

Completano la mostra il busto di Leonardo da Vinci in cristallo di Murano (2016), tre Rosari (2016) in vetro soffiato dal Maestro vetraio Silvano Signoretto, e uno struggente “volto” di Irene (2014), unica imperatrice nei quindici secoli di storia dell’Impero romano d’Oriente e d’Occidente.

Una riflessione, dunque, condivisa sulla disparità dei numeri ancora oggi tutti a sfavore del “rosa”; e una ricerca documentata, durante la mostra, dalla stessa gallerista la quale – anche grazie alla sua formazione matematica – ha comparato numeri e presenze in percentuale, per approfondire l’attuale portata del divario.

Per citare solo alcuni dati recenti:

–              Fra il 2008 e i primi cinque mesi del 2019 si sono spesi oltre $ 196,6 miliardi in arte nelle aste. Di questi, soltanto il 2% circa destinati ai lavori delle artiste ($ 4 miliardi per quasi 6.000 artiste). Dato ancora più significativo se confrontato – nello stesso arco temporale – con i $ 4,8 miliardi registrati alle aste per le sole opere di Pablo Picasso.

–              Il record d’asta stabilito per l’opera di una artista (il dipinto “Propped” di Jenny Saville) è di $ 12,4 milioni di dollari (Sotheby’s, ottobre 2018), contro i $ 91,1 milioni per “Rabbit” di Jeff Koons (Christie’s, maggio 2019).

L’urgenza di un’assunzione di responsabilità in tale direzione, ha dato inoltre l’input alla creazione, all’interno del  sito della Galleria, di un’area interamente dedicata a questo tema, che eredita il nome dal titolo della mostra.

L’esposizione è accompagnata da un catalogo con contributi critici di Umberto Palestini, Gloria Fossi e una nota botanica sulla rosa di Roberto Valenti.

Selezione opere

Ria Lussi
La Rosa curiosa, 2021
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Ria Lussi
La Rosa giocosa, 2021
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Ria Lussi
La Rosa permalosa, 2021
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Ria Lussi
La Rosa amorosa, 2021
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Ria Lussi
La Rosa premurosa, 2021
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Ria Lussi
La Rosa presuntuosa, 2021
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Ria Lussi
Teod., 2016
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Ria Lussi
La Rosa avventurosa, 2021
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Ria Lussi
Cost., 2016
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Ria Lussi
Chi ha paura del Rosa, 2021
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Ria Lussi
Chi ha paura del Rosa ?, 2021
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Ria Lussi
La Rosa rigorosa, 2021
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Ria Lussi
La Rosa lacrimosa, 2021
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Ria Lussi
La Rosa timorosa, 2021
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Ria Lussi
La Rosa spiritosa, 2021
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Ria Lussi
La Rosa pensierosa, 2021
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Ria Lussi
La Rosa misteriosa, 2021
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Ria Lussi
La Rosa religiosa, 2021
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Ria Lussi
Leonardo, 2016
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Ria Lussi
Irene, 2016
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Testo critico

Foggiati in un cerchio

di Umberto Palestini

Chi ha paura del rosa? Una domanda. Forse una provocazione? Una rivendicazione?

Ho dei dubbi. Se penso alla ricerca di Ria Lussi non potrei mai confinarla in un contesto di genere e forse lei stessa, al solo pensiero che qualcuno la costringesse dentro le rigide maglie in un filone espressivo, pur lodevole e giusto, ne sarebbe inorridita. La sua arte ha sempre indirizzato il suo bersaglio verso la ricerca di una totalità in cui l’universo femminile è sempre stato un elemento fondante, ma non il solo, di una cosmogonia che tende ad abbracciare l’universo intero. Per tale ragione l’evocazione del rosa non mi riporta ad un colore, che nel suo recente lavoro è in ogni caso protagonista, ma al fiore e alla passione che incarna. Pensiamo al sangue di Afrodite lasciato sulle spine dei rovi per salvare l’amato Adone che si trasforma in rose. L’idea che la morte sia sconfitta dall’amore, mi sembra più consona al suo modello creativo in cui la rinascenza, il preservare figure dimenticate o lontane, riportandole a nuova vita, è un modus operandi.

Oggi Ria Lussi ci pone una domanda che è anche una esortazione a non sottrarci a degli interrogativi e lo fa con una serie di opere circolari, che sappiamo rimandare alla perfezione e al tempo ciclico. Sulla superficie dei tondi, con il suo personalissimo segno, realizza una serie di autoritratti, ricami di figure in bilico tra ironia, altezzosità e delicato incanto, fino a sfiorare, con raffinato accento, anche l’erotismo con La Giocosa.

Una parte di opere si dispiega su sfondi opachi, incipriati dall’uso dell’acrilico, dove il vibrato è dato dalle diverse sfumature di rosa che si accendono fino a toccare i timbri potenti dei toni violacei, del rosa shocking. In altre, e questa mi sembra rappresenti la novità più interessante, i tondi si arricchiscono di pennellate spesse e carezzanti che rendono, in alcuni casi, gli autoritratti non del tutto evidenti, quasi fossero volutamente celati, iscrivendoli in una nuova prospettiva composta di preziose tessere come in mosaici baluginanti, in medaglioni madreperlacei.

Le nuove opere di Ria Lussi si ripetono come un mantra e richiamano alla mente un celebre verso di Gertrude Stein contenuto nel poema Sacred Emily, “Una rosa è una rosa è una rosa è una rosa”.

La Stein in una conferenza disse a proposito del verso: “lo foggiai in un cerchio, io feci poesia e che cosa avevo fatto, avevo accarezzato completamente accarezzato e chiamato un sostantivo.”

Gli autoritratti di Ria, foggiati in un cerchio, riescono ad includere il mito e l’avanguardia, si fanno poesia e carezza come nel poema della Stein, che contiene una frase memorabile, oggetto di attenzione e studi raffinati, come quello di Umberto Eco ne La struttura Assente. Il semiologo si pone una domanda: “che cosa capisco io di quello che mi sta dicendo Stein? Lei dice soltanto “rosa”, e mi lascia libero di riempire quella parola di significati che più mi appartengono e sento vicini. Chiama in causa letture, sentimenti e congetture. Chiama in causa me.”

La riflessione di Eco riveste perfettamente l’opera di Ria Lussi nella sua articolata complessità; la ricerca di un’artista che si è nutrita di studi, di letture, che ha offerto all’osservatore la libertà di interpretare e regalato sentimenti e congetture coinvolgendolo direttamente, chiamandolo in causa.

Si. Ria Lussi chiama in causa noi. Chi ha paura del rosa?

Rosa antico, rosa moderno, rosa libertà

di Gloria Fossi

Chi ha paura del rosa? Il titolo scelto da Ria è in forma interrogativa, e presuppone, mi pare, risposte personali.

Dirò allora, innanzitutto, di non temere il rosa, ci mancherebbe. Né rammento di aver mai identificato questo colore col genere femminile (non lo si faceva nei secoli passati, perlomeno nelle arti figurative, come poi accennerò). Né soffro di qualche forma fobica nei confronti di altri colori. Li amo tutti, anche se prediligo le sfumature dell’arancio, del giallo e del rosa: rosa ciliegia, rosa Tiepolo, rosa cipria, rosa violetto.

Sin dal Trecento, nella pittura toscana, fiorentina e senese (ma anche in area settentrionale, basti pensare al quattrocentesco Mantegna, di origine padovana), il rosa è colore frequente. Non intendo qui neppure accennare a valori ecfrastici, significati simbolici o semantici di questo colore nell’arte – la questione non si può affrontare in poche righe. Resta però che il rosa fu usato spesso dai grandi maestri, e in modo sublime.

Potrei citare un’infinità di esempi, ma qui basti rammentare qualche opera fra le più note del primo Trecento, come la mirabile veste rosata, quasi trasparente, del piccolo Gesù nella Maestà di Giotto agli Uffizi o come le tuniche dei santi nei dipinti di Ambrogio Lorenzetti. Per il primo Quattrocento, sono esempi illustri le vesti degli apostoli, sintetici e terragni, negli affreschi fiorentini della cappella Brancacci al Carmine, oppure il rosa lieve di due soavi angioletti nell’opera più antica, ancorché incantevole, che si conosca di Masaccio: il Trittico di San Giovenale, nel museo di Cascia vicino a Reggello, a sud di Firenze. I volti di quei due adolescenti  sono non a caso, senza identità o meglio, come mi è capitato di definirli, a profil perdu, espressione che sarà cara ad autori più vicini a noi come Théophile Gautier o Henry James.

Perché gli angeli sono rosa? Forse perché gli angeli sono stati i primi a ignorare le differenze di genere?

Ci sono poi gli edifici rosati del Quattrocento e del primo Manierismo (sono rosa, per esempio, le architetture di classica ascendenza di Domenico Veneziano. E poi, c’è il rosa metafisico, algido dell’etereo giovane raffigurato dal Pontormo nella cappella Capponi in Santa Felicita a Firenze. La sua pelle è di un colore magnetico e sorprendente.

Saltando infiniti passaggi, giungiamo ai rosa insuperabili dei cieli del Tiepolo: luce fulminante, e in basso figure di una «fluidità senza ostacoli e senza sforzi» che ascendono «a tutti i cieli, senza dimenticare la terra», come scriveva Roberto Calasso nel suo Il rosa Tiepolo, dove anche evocava l’Albertine della Recherche.

Facendo un salto prodigioso in avanti, fra i più intensi lavori di Lucio Fontana spicca la serie rosa degli anni Sessanta. E solo qualche mese fa – mi si perdoni il confronto un poco blasfemo – non posso non ricordare la maglietta (e il cappellino) rosa indossati sui campi da tennis dal mitico Roger Federer.

A ripensarci, anni fa percorsi la spettacolare Overseas Highway sulla coda della Florida con uno scooter rosa e con un cappellino in tinta. Perché scelsi quel colore, fra i tanti che mi furono offerti nella baracchina del noleggiatore? Forse perché ben s’intonava, in un gioco di contrasti, col blu intenso del mare quasi a pelo della strada asfaltata che congiunge Miami alla iconica Key West di Hemingway, trenta miglia in faccia a Cuba. O piuttosto, perché mi dava il senso di quello che fu il primo di tanti viaggi volutamente fatti da sola? Rosa come sapore di libertà. Leonardo – ­ intendo Leonardo da Vinci – ammoniva l’allievo: «Se tu sarai solo, sarai tutto tuo», anche se poi contraddiceva spesso, alla corte dei potenti, con affabile noncuranza, quest’affermazione, come pure molte sue altre. Proprio Leonardo amava indossare un’elegantissima giubba rosa. Non fu il solo, nel Cinquecento: fra gli esempi più eclatanti c’è il cavaliere bergamasco Gian Girolamo Grumelli, ritratto a figura intera come un re di Spagna, vestito interamente di rosa corallo, calze e scarpe comprese: così lo raffigurò nel 1560 Giovan Battista Moroni. Ambedue, il pittore e il committente, con evidenza non temevano il rosa, anzi, ne andavano fieri.

E poi, non si può ignorare il significato primo del termine “rosa”, quello botanico. Vicino a casa ho amici con un vivaio di rose antiche, che mi hanno insegnato a coltivarle. Questo mi ha aiutato a studiarle nei dipinti del Botticelli, e a cercare di individuare le specie presenti, soprattutto quelle rosa pallido che volteggiano nella Nascita di Venere e che riempiono la veste di Flora nella Primavera. Le rose, in assoluto, spiccano fra le tante altre specie colorate raffigurate dal pittore amato dai Medici.

È ovvio che gli artisti hanno amato anche altri colori – si pensi al “giallo Napoli” di Cézanne o al blu Fakarava di Matisse, che trae il nome da un atollo nell’arcipelago delle Tuamotu in Polinesia, visitato nel 1930, quasi per un azzardo, dal grande maestro francese (ma caro anche a Melville, Jack London, Stevenson, e per ultimo Simenon). Fin troppo socntato rammentare gli aranci e il giallo cromo usati alla fine del XIX secolo da Gauguin e van Gogh.

Adesso sono curiosa di vedere i rosa di Ria/Rosaria, che a mio parere è un bellissimo nome. Fra le altre cose.

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Ria Lussi
 

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