
La personale dell’artista brasiliana Luciana Pretta è la seconda di un ciclo di tre mostre — “Quando filo, colore, parola s’intrecciano” — a cura di Giovanna Dalla Chiesa, che mette a confronto il lavoro di tre artiste: Alice Schivardi, Luciana Pretta e Luisa Lanarca.
Come osserva Giovanna Dalla Chiesa: “Luciana Pretta è nata pittrice. La pittura è il linguaggio silenzioso in cui la sua sensibilità ha preso naturalmente forma, curvando maternamente intorno agli ostacoli, trovando rifugio nella ricchezza delle emozioni e del sogno.
La sua pittura non presenta alcuna distinzione tra linea e colore, tra il disegno (raziocinio) e il colore (sentimento). Il Brasile da cui proviene – benché le sue origini siano italiane – con l’enorme estensione, i suoi colori, l’ignoranza di passioni e conflitti come quelli che nutrono la tragedia greca, l’assenza di ogni regola prospettica, è il regno delle relazioni spontanee, di una cultura che non privilegia la rappresentazione, ma il canto, la musica e la danza; di rituali e di comportamenti che nascono in continuità e in simbiosi con il corpo della natura (e dell’essere umano) e che ne onorano aspetti e sostanza. L’Europa ha messo più di un secolo per liberarsi dalla scissione che ha afflitto così a lungo la sua cultura e per abbattere un ego cartesiano pronto a erigere barriere a ogni occasione.
Negli ultimi anni, il lavoro di Luciana Pretta è passato dai piccoli e medi formati abituali su tela, da un ingegnoso riuso di carta, cartone e oggetti minuti, alle grandi dimensioni che esaltano la qualità di una pittura paesaggio – paesaggio che è sempre protagonista nelle sue opere -, che si fa corpo, fiume, montagna per accogliere il visitatore nelle sinuosità della sua tettonica, pronta a farlo sentire a suo agio, come ci si sente sotto la volta del cielo, la chioma di un albero, la cavità di una roccia.
La memoria dei panorami anfrattuosi del suo paese è sempre più presente, oggi, in una forma di trasformazione attiva, che ama servirsi di materiali organici e naturali, come pigmenti derivati da minerali e piante, oli essenziali e cotone grezzo. Una scelta che non ha a che fare solo con l’estetica, ma con l’etica del rispetto della sostenibilità ecologica, della responsabilità ambientale, dell’attenzione che si deve a tutta la creazione di cui l’uomo è solo un’infima parte.”
In mostra una selezione di lavori recenti: tre monumentali dipinti verticali (h. 5 m) si susseguono lungo un’intera parete, dispiegandosi come arazzi sospesi. Disposti l’uno accanto all’altro, evocano l’idea di un trittico fluido, in cui il colore e la materia scorrono in continuità, come un’unica grande tessitura pittorica. A fare da contrappunto, un gruppo di dipinti di piccolo formato e una installazione che include alcune sue opere scultoree.
Selezione opere
Gallery




Testo critico
I sentieri della pittura di Luciana Pretta
di Giovanna Dalla Chiesa
Il mondo di Pretta
Vitòria da Conquista (Bahia), la città dove è nata Luciana Pretta, si trova al centro del sertao del nord brasiliano, un deserto percorso, tra l’ottocento e il novecento, dai cangaceiros – banditi, originariamente pagati dai latifondisti locali per sottomettere i nativi e privarli delle loro terre a profitto dei fazendeiros, i grandi proprietari terrieri. Un’area sempre pervasa da grande violenza, la stessa descritta in modo pittoresco da uno dei maggiori registi del novecento, originario della città, Glauber Rocha, che del cinema faceva un sogno poetico e intendeva montare i suoi film memorabili – Il dio nero e il diavolo biondo (1964), Antonio das Mortes (1969) – “come una canzone, dove la cinepresa scrive, canta e danza”.
Oggi quella terra è addirittura considerata tra le dieci più violente del mondo.
Come si sopravvive, dunque, alla violenza e alla sopraffazione del più forte, quando non si hanno i mezzi per affrontare una guerra, né le condizioni per creare governi appropriati, stabili ed equi? La fantasia e il sogno, la musica e la danza sono allora il rifugio per le persone sensibili, per chi la vita la vuole proteggere, e non distruggere o soffocare.
Sin da bambina Luciana, che la famiglia soprannominava “preta” – nera – perché era l’unica ad avere i capelli corvini, in mancanza di altre opportunità e di giocattoli, ha cercato di costruire il suo mondo dando vita a paesaggi fantastici e ad ambienti alternativi nella sua stanza, con qualsiasi cosa le suggerisse una possibilità nuova, poetica e fantasiosa, dalla carta agli oggetti, prendendo a manipolarli con felice arguzia. Nello stesso modo, appena adolescente, ha iniziato a dipingere con qualunque sostanza le sembrasse espressiva o interessante. Poi gli studi e il diploma all’Università Federale di Bahia, l’incontro con l’Italia, dove era venuta a rintracciare le sue lontane origini siciliane, il lungo apprendistato tra le Accademie di Roma – Bologna – e di nuovo Roma, per il dottorato in Pittura. Ma paradossalmente, la lontananza ha rafforzato le radici insite nei luoghi di provenienza – la storia e la geografia scorrono nelle nostre vene senza che ne siamo consapevoli – e intatta è restata l’attitudine a non distinguere, sin dall’inizio, tra disegno (raziocinio) e colore (sentimento). Il Brasile, con la sua enorme estensione, i colori smaglianti, l’ignoranza delle passioni e dei conflitti all’origine della tragedia greca, l’assenza di ogni regola prospettica, è il regno delle relazioni spontanee, di una cultura che non privilegia la rappresentazione, ma il canto, la musica e la danza; di rituali e di comportamenti che nascono in continuità e in simbiosi con il corpo della natura (e dell’essere umano) e che ne onorano gli aspetti e la sostanza. L’Europa ha messo più di un secolo per liberarsi dalla scissione che ha afflitto così a lungo la sua cultura e per abbattere un ego cartesiano, pronto a erigere barriere a ogni occasione.
Tra gioco e memoria
La pittura è il linguaggio silenzioso in cui la sensibilità di Luciana Pretta ha preso naturalmente forma, curvando maternamente intorno agli ostacoli e trovando rifugio nella ricchezza delle emozioni e del sogno.
Le istanze di questo medium, tuttavia, dimentiche di generi hanno rotto i confini e, come segni di delicata appropriazione, di amabile nobilitazione si sono spesso adagiate su utensili di uso comune, su frammenti di realtà sottovalutate o ignorate, o ancora, su involucri e contenitori di altri oggetti, per avallarne la dignità. Tipica di questa attitudine è la serie Remiscences – Places of Memory (2017), nata per caso durante un viaggio, grande motore di molte sue ispirazioni. In Svezia, un giorno la sua attenzione cadde su un cestino pieno di scatole colorate che immediatamente le ricordarono i giochi della sua infanzia, quando prendeva forma il suo istinto creativo. Aprire una piccola scatola, vagliarne lo scheletro vuoto, le alette per rinchiudere lo spazio su di sé le ha suggerito la possibilità di riversare in quei vani simili a scrigni e contenitori di segreti, i suoi tocchi di pittura, in consonanza con i propri flash di memoria, per preservare i frammenti di tempi lontani. Il riuso del cartone ha assunto poi anche il carattere di una resistenza allo sfruttamento delle risorse naturali e alla violenza che si opera sulla vita dei più deboli – esseri umani, o appartenenti a quell’eco-sistema che non può parlare – connotando questi gesti di una fisionomia etica che da allora accompagna l’artista nel suo lavoro. L’archeologia dei reperti evoca, d’altronde, quella di utensili da lavoro, di lettere di un alfabeto segreto in via di decifrazione, che sottolineano il carattere polisemico della sua attività. La natura del segno è, infatti, allusiva, aperta a diverse interpretazioni a seconda del suo sistema di riferimento. Si rinnova in questo modo, per via artistica, il gioco che ogni bambino si è divertito a fare, quando ha tentato di leggere macchie e caratteri che sollecitano le forme archetipiche del nostro inconscio collettivo e personale, aprendolo a infinite possibilità.
I grandi formati: l’installazione
Negli ultimi anni, il lavoro di Luciana Pretta, dai piccoli e medi formati su tela e dall’ingegnoso riuso di carta, cartone e oggetti minuti, ha attinto le grandi dimensioni di una pittura paesaggio – da sempre protagonista delle sue opere – che vuole farsi corpo, fiume, montagna per accogliere il visitatore nelle sinuosità della sua tettonica e farlo sentire a suo agio, come ci si sente sotto la volta del cielo, la chioma di un albero, la cavità di una roccia.
L’installazione Universo particolare (2019 – 2021) che oltre a una grande tela di varie gradazioni di blu, spinge in primo piano diverse sculture dipinte a formare una quinta di montagne e colline, nasce dalla vista del paesaggio osservato dall’altezza del Corcovado (710 m) – dove si trova la statua del Cristo Redentore – che si erge al centro di Rio de Janeiro, con la vastità del mare al di sotto e l’insieme di isole e isolotti che si possono ammirare all’orizzonte di uno dei panorami più spettacolari del mondo, per varietà e ricchezza di modulazioni.
Il trittico Sertao. Sentiero del sole al tramonto (2024 – 2025), per la profondità e la molteplicità delle sfumature di rosso, ottenute con la paziente mescolanza di pigmenti derivati da minerali e da piante, da oli essenziali e sostanze organiche e naturali, gareggia con la grande stagione della pittura astratta, ma mentre caratteristici di quella esperienza sono i grandi formati orizzontali, è interessante notare la preferenza data al formato verticale da Luciana Pretta, come a un evento che scende dall’alto, lasciando letteralmente senza scampo chi lo riceve e lo accoglie senza potervisi sottrarre: una cascata, un’onda che interrompe il nostro camminare in tondo e la parabola del nostro sguardo, per invaderlo tutto, costringendolo a una sosta dentro le pieghe del colore che lavora dentro di noi come un rimando alla nostra interiorità più profonda.
Mentre il grande formato ci dischiude la vastità di un sentire, tra psiche e corpo, in cui è benefico saper sostare e abbandonarsi, il piccolo formato risponde al desiderio incessante di cogliere momenti di bellezza e di armonia nella natura, di preservarne la magia, come rincorrendo il tempo dentro la filigrana di istanti, assaporati con euforia. Le vie del “paese mentale” odierno di Luciana Pretta si confondono con quelle delle città e dei mondi di cartone che costruiva da bambina, nell’aspirazione a un intenso dialogo tra il mondo interiore e quello esterno, e nell’intenzione di riconoscere l’opportunità che ogni incontro riserva, insieme al rispetto che si deve alle piccole cose.
I punti di vista si moltiplicano in concordanza con le modalità e i formati – come nei piccoli cubi su cui si iscrivono deliziosi paesaggi in miniatura – il microcosmo s’intreccia costantemente con il macrocosmo; l’attenzione alla grazia e alle mille sfumature in cui si esprime il nostro universo, il desiderio intenso di preservarne l’originaria fragranza fanno sì che ogni cosa si trasformi attivamente, traducendosi in scelte che non hanno a che fare solo con l’estetica, ma con l’etica e con il rispetto della sostenibilità ecologica, della responsabilità ambientale, dell’attenzione che si deve a tutta la creazione, di cui l’uomo è solo un’infima parte.